Museo civico archeologico del Distretto minerario di Rio nell'Elba

  • Il Museo Archeologico del Distretto Minerario illustra la storia dell’Elba orientale, in larga parte legata alle sue straordinarie risorse minerarie, sfruttate dalla Protostoria fino all’età contemporanea.

    Il Museo occupa un edificio di recente costruzione progettato espressamente per lo scopo e conosciuto a Rio come “Barcocaio”, perché sorge nel luogo dove crescono diversi albicocchi, nel vernacolo riese detti appunto “barcochi”. Inaugurato nel 2003, il Museo espone la sua collezione in un’ampia sala affacciata con una vista panoramica sulle colline degradanti verso il mare che per oltre due millenni hanno fornito prezioso minerale di ferro. Il colore rossastro della terra ricca di ossidi di ferro, che si staglia sull’azzurro del mare del Canale di Piombino, è ripreso all’interno del Museo dalle alte teche dello stesso metallo dall’aspetto rugginoso, nelle quali sono esposti i materiali archeologici. Il percorso, che si sviluppa in maniera lineare dal piano terra al soppalco, procede in senso cronologico dall’età del Rame al Medioevo.

    Nel 2009 il Museo si è arricchito della Collezione dei minerali elbani della Gente di Rio: una raccolta di notevoli campioni di minerali di esclusiva provenienza elbana, formata dai pezzi che alcuni appassionati collezionisti riesi, selezionandoli quando ancora le miniere erano in attività, hanno deciso di rendere visibili a tutti attraverso il Museo.
    La suggestiva raccolta di minerali è l’inizio del percorso espositivo, cui segue una presentazione geologica dell’Elba orientale, delle sue straordinarie risorse minerarie e delle tecniche impiegate per la lavorazione del bronzo e del ferro dall’Antichità all’età moderna.
    I più antichi materiali archeologici, e anche il complesso più numeroso, sono quelli eneolitici (della fine del III millennio a.C.) provenienti dai corredi funerari della grotta di San Giuseppe, che fu la sepoltura collettiva di una comunità stanziata in prossimità del mare. La cavità naturale fu usata da più generazioni per seppellire i propri defunti (circa una novantina gli individui contati), che di volta in volta erano collocati insieme al corredo, accantonando le precedenti deposizioni.
    I corredi trovano precisi confronti nella cultura eneolitica di Rinaldone, sviluppatasi tra Toscana e Lazio settentrionale, ma sottintendono contatti con altre cerchie culturali, probabilmente in relazione al commercio del minerale di rame e dei manufatti metallici, nel quale la comunità di San Giuseppe sembra inserita.
    La ceramica è composta da vasi a fiasco, tipicamente rinaldoniani, vasi con corpo biconico, ovoidale ed ellissoidale, anche di grandi dimensioni, da ciotole e da tazze. L’industria litica, anch’essa rinaldoniana, è composta da punte di freccia di selce e di diaspro locale, di diverse dimensioni. Ci sono anche punte in osso con taglio sbiecato, come cuspidi di lance, e coltelli di rame a lama piatta.

    Preziosi oggetti di bronzo della collezione ottocentesca di Raffaello Foresi testimoniano un periodo, tra l’età del Bronzo e la prima età del Ferro, di particolare vivacità dell’Elba, coinvolta nei traffici e nei contatti culturali che legavano Corsica, Sardegna ed Etruria.
    Poche ceramiche etrusche e vasellame bronzeo da banchetto provenienti da tombe elbane documentano la tarda età arcaica, mentre numerosi corredi funebri della necropoli del Buraccio – con le ceramiche da mensa a vernice nera, unguentari, boccaletti corsi e treppiedi di piombo populoniesi – accompagnavano i defunti di una comunità probabilmente legata all’attività di estrazione e riduzione del minerale di ferro, che in questo periodo, tra II e inizio del I secolo a.C., raggiunge il massimo della produttività.

    Al momento finale dell’intensa attività estrattiva del ferro sotto il dominio romano (fine II-inizi I sec. a.C.), risale l’impianto siderurgico scoperto alcuni anni fa a San Bennato, presso Cavo: è stato il primo a essere scavato in maniera scientifica e rimane ancora l’unico in tutta l’isola.
    Successivamente, dalla metà del I secolo a.C., l’Elba e le altre isole dell’Arcipelago condividono la sorte di privilegiate sedi di lussuose residenze per i ricchi Romani. Così anche a Capo Castello, punta nord-orientale dell’isola e luogo più prossimo al continente, sorge una delle tre ville marittime elbane. I resti, già ricordati nella letteratura antiquaria tra Sette e Ottocento, sono ora nascosti tra la vegetazione e le costruzioni moderne, ma il percorso del Museo ne fornisce una descrizione aggiornata ai recenti scavi e mostra i materiali recuperati.
    La ripresa dello sfruttamento della vena del ferro avvenne nel Medioevo sotto il controllo della Repubblica di Pisa, quando a ridosso dell’area mineraria sorsero il paese di Rio e di Grassera. Quest’ultimo, distrutto nel 1553 da un’incursione del pirata Barbarossa e abbandonato, è stato oggetto di recenti ricerche archeologiche. Gli scavi hanno fornito materiali e informazioni che illustrano la vita in una casa con laboratorio metallurgico.
    Gli oggetti della vita quotidiana di Grassera, il villaggio abbandonato e scomparso, concludono il percorso museale ma la storia continua nel paese di Rio, che accolse i sopravvissuti alla distruzione barbaresca.



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